La seconda stagione di Luke Cage andrebbe vista come l’occasione per i serial di Marvel/Netflix di mostrare nuovamente una certa verve, dopo le deludenti prove di Iron Fist, The Defenders e Jessica Jones 2. Quel fascino che aveva spinto le produzione del MCU targato Netflix sembra essersi smarrito, come se l’exploit di Daredevil fosse stata una parentesi felice.
Il tema del black power della prima serie a questo giro non è più così innovativo, visto che nel frattempo sono usciti Black Lightning (deludente) e Black Panther (stupendo), rendendo l’eroe afroamericano più debole sotto quell’aspetto. Per dare allo spettatore un qualcosa di più accattivante era necessario lavorare al meglio sui personaggi, definendoli maggiormente e rendendoli ancora più magnetici. Un’operazione tutt’altro che facile, specialmente quando Luke Cage deve esser visto da spettatori che delle vicende storiche di Harlem hanno poca dimistichezza.
Luke Cage a proteggere Harlem nella seconda stagione della serie Marvel, disponibile su Netflix
Se nella precedente stagione si cercava di dare una visione della vita nella zona nera di Manhattan tramite le vicende dei protagonisti, la seconda stagione di Luke Cage è particolarmente ricca di riferimenti reali ad eventi fondamentali dalla comunità nera newyorkese e statunitense, poco noti in Italia, che rischiano di passare inosservati da parte del pubblico, lasciando sfumare parte dello spessore narrativo.
E narrativamente parlando, le nuove gesta di Cage sulla carta sarebbero anche interessanti.
Riprendendo la storia qualche mese dopo gli eventi finali della precedente stagione, ci ritroviamo a vivere anche le conseguenze dello scontro finale visto in The Defenders.
Se Luke (Mike Colter), scarcerato dopo l’ingiusta accusa, è ora il protettore osannato di Harlem (tanto da aver persino una app ed un merchandising), Misty Knight (Simone Mennick) deve affrontare la perdita del braccio e la sua fine della carriera come poliziotta, vista dai suoi colleghi come una sorta di mascotte di poca utilità. Allo stesso modo, Mariah Dillard (Alfre Woodard) è uscita dal carcere divenendo nuovamente un punto di riferimento per la comunità di Harlem.
A disturbare gli equilibri è l’arrivo di un nuovo giocatore, Bushmaster. Direttamente dalla Giamaica, questo misterioso personaggio in grado di tenere testa a Luke e minare il potere di Mariah, dovrebbe essere il cattivo, l’elemento di rottura di un precario equilibrio di potere.
In realtà, la lotta per il dominio di Harlem rischia di perdere di interesse, venendo coperta dalla più intrigante tematica della famiglia, particolarmente sentita in questa seconda stagione di Luke Cage. Interessante il fatto che ci venga presentata dal punto di vista del figlio che deve perdonare un padre (Cage), di una madre in cerca di un rapporto con una figlia mai voluta (Mariah) e di un figlio in cerca di vendetta per una faida familiare (Bushmaster).
Questo intreccio sarebbe stato anche vincente, se non fosse stato allungato su tredici episodi che ne hanno diluito troppo il fascino. Mancano, ad un certo punto, dei punti fermi su cui basare la storia, che tende a ripiegarsi su se stessa perdendo di mordente. A metà stagione, lo confesso, ho sentito i primi morsi della noia, la ricerca di un qualcosa di veramente meritevole e non scontato, prevedibile.
Ed è un peccato, perché alcuni passaggi della seconda stagione di Luke Cage sono davvero stimolanti, con personaggi in preda a crisi di coscienza ed un ospite d’onore che, per quanto resti uno dei peggi realizzati finora, ha modo di riscattarsi almeno sul piano emotivo.
La fortuna di questa stagione è una serie di colpi finali che iniziano a mostrarsi negli ultimi episodi, complice un discreto lavoro sulla pressione psicologica di Cage, che in alcuni punti riesce ad aggirare una performance particolarmente spenta di Colter, che si cala troppo nel ruolo di eroe monolitico perdendo di carisma. Ma come una pessima cena può esser salvata da un grande dessert, gli ultimi episodi riescono a stimolare la curiosità per una terza stagione grazie ad una nuova identità sociale di Cage, con un’interpretazione più convinta di Colter, rendendo, col senno di poi, questa seconda serie una sorta di percorso iniziatico per l’Eroe in Vendita.
A farla da padrone, come nella precedente stagione, è la colonna sonora. Oltre ad una musica particolarmente black, in grado di coprire una bella fetta del secolo scorso fino a sonorità più moderne, data la presenza di Bushmaster si sentono anche influssi giamaicani, che creano un piacevole contrasto nella gestione degli episodi.
A serie finita, la seconda stagione di Luke Cage, nonostante alcuni difetti, mostra comunque una certa voglia di rialzare la testa dopo produzioni decisamente sottotono. La qualità delle prime due stagioni di Daredevil è ancora ben lontana, ma quanto visto lascia bene sperare per lo sviluppo futuro del mondo Marvel marchiato Netflix.