Quando ci si ritrova a leggere un libro scritto da qualcuno che si conosce si tende ad avere un minimo di sudditanza. Ti ritrovi tra le mani il lavoro nato dalla passione e dalla fatica di una persona che magari ti ha raccontato quanto abbia significato per lui questa creazione, e ti ritrovi a parlarne, con quel misto di ansia e rispetto che non ti mollano un secondo. Come sta capitando ora che mi accingo a raccontare Five Fingers, antologia di racconti western di Luca Barbieri, oggi curatore della serie Dragonero.
Luca è uno che è nato con un centinaio d’anni buoni di ritardo, la sua passione per il west è un qualcosa di palpabile, di travolgente. Autore di saggi legati al mito della frontiera americana, non riesce a trattenersi quando entrano in scena speroni e Colt, il suo trasporto per questa ambientazione è totale. Conoscendolo, come ho saputo che era autore di una raccolta di racconti western, ed essendo appassionato come lui, non ho resistito e ho recuperato il suo Five Fingers.
Five Fingers, cinque racconti western tra impiccagioni e cacce all’uomo
Mi aspettavo di tutto, tranne quello che ho letto, lo ammetto. I racconti contenuti nel libro edito da Meridiano Zero sono una sorpresa continua. Solitamente, quando si parla di western viene da pensare a distese di prateria immense, assalti a diligenze o scontri di quick draw in mezzo a villaggi silenziosi. Luca Barbieri va oltre questi luoghi comuni, sceglie di percorrere una strada diversa, più personale.
Partendo dall’idea delle cinque dita di una mano, per ogni dito ci accoglie con una piccola introduzione che dia la chiave di lettura del racconto, per poi accompagnarci in un viaggio dove il profuma della prateria si mescola ai lati più oscuri dell’animo umano, in un’unione empatica che raggiunge il lettore con la potenza di un proiettile. Tutto quello che leggiamo appartiene al western, ma spesso si tratta di aspetti che la maggior parte dei lettori ignorano, trasformando la lettura di Five Fingers in un arricchimento non solo emotivo, ma anche nozionistico.
Il segreto è la scrittura di Luca. Il suo stile è particolare, più vicino a quelli che sono i grandi romanzieri d’oltreoceano che si sono cimentati con il West. La scelta di un vocabolario autentico, che riprendesse il modo di parlare dell’epoca, è un tocco di realismo che aiuta a sentirci coinvolti nel mondo che ci racconta. Particolarmente d’effetto la presenza di termini gergali (sempre spiegati con una nota) o di contaminazioni linguistiche derivanti dal messicano e dalle lingue indiane, specchio di una società forzatamente multietnica ma ancora radicalmente fondata sulla preminenza dell’uomo bianco. L’utilizzo di termini volgari non è mai usato per scandalizzare il lettore, ma perché erano parte integrante del vernacoliere dell’epoca, spesso utilizzato da una popolazione poco colta. E questo si ripercuote nei dialoghi, che hanno tutta la concretezza di una chiacchierata in un saloon o di un incontro tra pistoleri.
Sul piano emotivo Luca Barbieri non lesina nulla al lettore. La sua intenzione non è quella solamente di raccontare, ma di farci sentire pienamente parte di questo west insolito. Se nel leggerlo penserete che sia forzato il modo in cui ci si rivolge a indiani o gente di colore, sappiate che non è razzismo, ma lo specchio di un’epoca in cui quello ero il pensiero comune. Per dare concretezza alla sua ambientazione, Luca Barbieri ha ritratto chi ha vissuto quel periodo, con le usanze macabre (come un’asta post impiccagione) o un’accettazione di elementi violenti oggigiorno semplicemente accettabili. Oggi, per l’appunto, non nel selvaggio west, dove la civiltà sembrava una maschera con cui coprire il peggio dell’animo umano.
Curioso come questa sua intenzione sia presente anche in un certo Stephen King. Barbieri e King condividono la capacità di unire la narrazione del vecchio west con gli inserimenti del sovrannaturale, una tinta horror così discreta e ben orchestrata che è difficile capire dove finisce l’una per lasciare spazio all’altra. Racconti come L’antico credo degli insepolti o Ciò che il Banshee porta con sé riescono a creare un’ansia e un’aspettativa di un qualcosa di tremendamente affascinante a cui non sappiamo resistere. Leggendo Five Fingers mi son tornate in mente le sensazioni vissute seguendo Roland Deschain nel primo libro de La Torre Nera, per via del modo in cui entrambi gli autori hanno saputo trasmettere la potenza della propria ambientazione con la naturalezza di qualcuno che ha vissuto dal vivo quel mondo.
Vi avviso, leggere Five Fingers è una bella sfida. In alcuni punti la durezza di quanto viene narrato non ci risparmia nulla, se soffrono i protagonisti, allora soffriamo anche noi con loro, non siamo semplici spettatori. Eppure ci sono anche attimi di dolcezza infiniti, come una prostituta messicana che invita un ragazzino a tenersi stretta la sua fanciullezza, che il mondo degli adulti è una guerra continua. Tutto nei racconti di Luca Barbieri è finalizzato a trasmetterci emozioni forti e una conoscenza del west, delle sue usanze più sconvolgenti o degli aspetti più truci della tanto chiacchierata frontiera. Non cercate redenzione o esiti positivi in Five Fingers, perché sprechereste tempo. In questa raccolta il tema che lega tutti i racconti è l’amarezza, la bassezza dell’animo umano, visto che non c’è un solo personaggio che potremmo definire positivo, ma tutti sono incredibilmente vividi, reali.
L’unico difetto di Five Fingers è l’essersi ispirato alle dita di una mano, che ci consente di leggere solo cinque racconti. Un ringraziamento per questa coinvolgente lettura va anche a Vincent Spasaro, che per primo diede fiducia a questa stupenda antologia. Barbieri con la sua raccolta western merita di diritto un posto nelle nostre librerie, tra il Pantera di Valerio Evangelisti ed il Cormac McCarthy della Trilogia della Frontiera.